Responsabilità professionale. Tutti i nodi irrisolti della nuova legge (prima e seconda parte) (da quotidianosanita.it del 28 -29 aprile 2017)

Data:
29 Aprile 2017

La ratio che ha mosso il legislatore è prevalentemente costituita dall’obiettivo principale di superare o comunque di ovviare ad alcune criticità: aumento del contenzioso giudiziario, notevole sviluppo della medicina difensiva, tendenza crescente alla positivizzazione delle regole dell’arte medica. Ma lo scopo è tutt’altro che agevole da raggiungere, o comunque ciò pare possibile solo in parte

27 APR – Ai tempi dell’ Università, idealizzavo il legislatore quasi considerandolo un’entità perfetta, sovrannaturale, onnisciente, data la sua capacità di cimentarsi in qualunque settore od argomento e di disciplinarne i più svariati effetti ed aspetti. Col tempo, mi sono dovuto purtroppo ricredere, essendomi imbattuto in testi normativi generici, caotici, confusi, ambigui, contraddittori, incoerenti, inapplicabili, frettolosi, tali da rendere l’attività dell’interprete decisamente complessa e difficoltosa.

Ciò anche a causa di una tecnica legislativa divenuta via via meno raffinata e sempre più grossolana ed atecnica, se sol si pensi al sempre più diffuso ricorso ai decreti legge anche in mancanza di effettivi casi straordinari di necessità ed urgenza, all’impropria adozione di decreti legge aventi efficacia differita, all’ abuso di bis, ter, quater, ecc. sia per commi che per articoli, ai riferimenti inesatti od a norme inesistenti, ai non sempre felici richiami ad altre leggi o disposizioni, all’ assenza di norme transitorie.

Fa sorridere pensare al brocardo secondo cui “ignorantia legis non excusat”: anche fra gli operatori del diritto, l’ignoranza della legge è inevitabilmente diffusa, data anche la vigenza di innumerevoli norme in ogni branca del diritto, così da rendere decisamente punitivo quel principio; la stima che circola da tempo è che in Italia ci siano addirittura tra le 150mila e le 160mila leggi attualmente in vigore.

Il numero è impressionante già da solo e lo diventa ancor più se paragonato al numero delle leggi degli altri Paesi europei a cui spesso vogliamo far riferimento: la Francia ha circa 7mila leggi, la Germania intorno alle 5.500, la Gran Bretagna ne conta poco più di 3mila.

Tanto doverosamente premesso, il 28 febbraio 2017 è stato approvato dalla Camera dei Deputati il testo definitivo della legge 24/2017 ( c.d. Legge Gelli-Bianco, entrata in vigore nella giornata del 1 aprile 2017), che nelle intenzioni del legislatore dovrebbe superare le profonde incertezze interpretative contenute nella precedente Legge 189/2012 (c.d. Legge Balduzzi), riformulando integralmente la cornice applicativa sia della responsabilità penale sia di quella civile della struttura sanitaria nonché dell’esercente la professione sanitaria.

Essa, salutata favorevolmente dalla comunità scientifica per i contributi di chiarezza che apporta in una materia tanto delicata, contiene tuttavia, come di consueto, ambiguità e contraddittorietà, su alcune delle quali, senza presunzioni di completezza, e pur nella consapevole attesa dei decreti ministeriali attuativi, proverò di seguito a soffermarmi brevemente.

Nell’ analizzare un nuovo testo normativo, è preliminarmente opportuno individuare il contesto nel quale è maturata l’esigenza di una riforma.

Oltre che per le incertezze provocate dalla convivenza della pluralità di orientamenti giurisprudenziali, la situazione della responsabilità medica colposa era divenuta particolarmente complessa anche in virtù di tre fattori, emersi, in termini particolarmente rilevanti, soprattutto negli ultimi decenni:
1) l’aumento del relativo contenzioso giudiziario;
2) il notevole sviluppo della c.d. medicina difensiva;
3) la tendenza crescente alla positivizzazione delle regole dell’arte medica.

Dai lavori preparatori e dai primi commenti si ricava che la ratio che ha mosso il legislatore è prevalentemente costituita dall’ obiettivo principale di superare o comunque di ovviare alle criticità appena indicate.

Ma lo scopo è tutt’altro che agevole da raggiungere, o comunque ciò pare possibile solo in parte.
Su ciascuno di questi tre fattori conviene brevemente soffermarsi al fine di comprendere meglio il contesto in relazione al quale il legislatore si è proposto di intervenire con la novella.

L’aumento del contenzioso giudiziario.
Come messo in evidenza da recenti ricerche, negli ultimi anni si è registrata un’impennata dei processi penali relativi a casi di responsabilità medica, tra l’altro dovuta anche al fatto che la parte civile (il paziente o i suoi eredi) mira ad ottenere un ristoro economico – tramite gli strumenti del processo penale, a torto o a ragione ritenuti più rapidi, più efficaci e meno onerosi di quelli offerti dal processo civile – delle proprie aspettative di salute rimaste frustrate; il contenzioso penale avviato a carico del medico ha, in tal modo, anche ricadute economiche sulle strutture sanitarie e sulle società assicuratrici.

In effetti, i sorprendenti passi in avanti compiuti dalla medicina negli ultimi decenni se, da un lato, hanno accresciuto le possibilità di sconfiggere malattie e superare disabilità, dall’altro lato hanno pure alimentato aspettative talora miracolistiche nei pazienti di ottenere la guarigione e, di pari passo, hanno incrementato la loro indisponibilità psicologica ad accettare eventuali esiti infausti dell’intervento terapeutico.

Per altro verso occorre considerare che, grazie ad un’evoluzione socio-culturale degli ultimi decenni e ad una maggiore accessibilità di informazioni in ambito sanitario (anche se, purtroppo, non sempre si tratta di informazioni debitamente controllate), il paziente si è ormai ampiamente svincolato da una sorta di succubanza rispetto alla figura di un medico onnisciente e infallibile, ed è pertanto più predisposto a criticare l’operato del medico, facendo valere, all’occorrenza, tali ragioni di critica anche attraverso l’attivazione di un contenzioso giudiziario.

Inevitabili sono, pertanto, le ricadute negative a carico del medico di tali nuove dinamiche, destinate a produrre uno stato di angoscia e preoccupazione, capace di ripercuotersi sul piano personale, sulle scelte professionali e, non ultimo, sulla sua situazione patrimoniale. Per giunta, occorre considerare che il medico, inserito in complesse strutture sanitarie, è spesso l’ultimo anello di una lunga catena organizzativa, ma è il solo, dei vari anelli di tale catena, a doversi confrontare direttamente con il paziente: il medico rischia, di conseguenza, di essere chiamato a rispondere anche di disfunzioni che, in realtà, prescindono dalla sua persona e dal suo operato (si pensi, ad esempio, ad una difettosa organizzazione dei turni, ad un sottodimensionamento del personale, alla mancata predisposizione o al mancato aggiornamento di protocolli e check list, o ancora alla carenza di macchinari evoluti presso l’ospedale in cui il medico opera).

L’espansione della c.d. medicina difensiva.
La preoccupazione del medico, e della struttura sanitaria, di evitare possibili conseguenze sanzionatorie o risarcitorie, o anche il solo instaurarsi di un procedimento penale (processo “pubblico” per definizione) è il principale fattore all’origine della c.d. medicina difensiva.

Come è noto, si parla di medicina difensiva positiva quando il medico – spinto dalla suddetta preoccupazione – prescrive test, trattamenti o visite non strettamente necessari nel caso specifico ma a scopo esclusivamente cautelativo: e così viene prescritto un numero eccessivo di esami diagnostici, talora inutili, o vengono suggeriti farmaci molto potenti quando la terapia potrebbe invece essere avviata con farmaci più blandi, o si dispone il ricovero ospedaliero quando per contro si potrebbe seguire la via ambulatoriale, o ancora si consigliano consulti con medici specialistici in una fase assolutamente precoce del trattamento, sottoponendo così il paziente a pratiche, oltreché non necessarie, anche potenzialmente invasive; si parla, invece, di medicina difensiva negativa quando il medico evita pazienti o trattamenti ad alto rischio, adottando, per contro, atteggiamenti astensionistici (il rifiuto di eseguire procedure particolarmente complesse, la mancata presa in carico di pazienti con patologie rare o estremamente delicate, lo spostamento del paziente in altro reparto o in altra struttura), con evidente pregiudizio per soggetti che necessiterebbero di cure in tempi celeri.

Nella letteratura statunitense si rinviene la migliore e più diffusa definizione della medicina difensiva: “La medicina difensiva si verifica quando i medici ordinano test, procedure e visite, oppure evitano pazienti o procedure ad alto rischio, principalmente (ma non necessariamente) per ridurre la loro esposizione ad un giudizio di responsabilità per malpractice. Quando i medici prescrivono extra test o procedure per ridurre la loro esposizione ad un giudizio di responsabilità per malpractice, essi praticano una medicina difensiva positiva. Quando essi evitano certi pazienti o procedure, essi praticano una medicina difensiva negativa” (OTA, Office of Technology assessment, USA Congress).

Nell’uno e nell’altro caso si verifica quello che viene ritenuto un disservizio anche se le due ipotesi si realizzano con modalità ed effetti del tutto differenti.
Per completezza, mentre la cosiddetta medicina difensiva negativa, è direttamente pregiudizievole per il paziente che potrebbe incontrare difficoltà nella ricerca di un professionista o di una struttura adeguata che siano disposti alla presa in carico del suo caso. La positiva invece è destinata a produrre un pregiudizio quasi esclusivamente di natura finanziaria perché consistente in una spesa inappropriata.

Le ricadute negative sulla salute dei pazienti, connesse alle pratiche di medicina difensiva, è evidente, in quanto il medico non opera più soltanto un bilanciamento tra rischi temuti e benefici auspicati per la salute, che solo porterebbe a identificare il «miglior» trattamento della patologia, ma mette in conto un proprio rischio di esposizione «giudiziaria», sino a lasciarsene pesantemente condizionare. Questa alterazione nei rapporti tra medico e paziente, riprodotta su ampia scala, comporta altresì una gestione non razionale delle risorse, con danni all’economia del servizio sanitario, che a cascata si ripercuotono su quantità e qualità delle prestazioni erogabili e, in definitiva, sugli stessi utenti.

La tendenza alla positivizzazione delle regole dell’arte medica: le linee-guida.
In parte come forma di reazione alla crescita del contenzioso giudiziario, in parte come risposta all’esigenza di razionalizzazione e maggior efficienza della professione medica, negli ultimi decenni – seguendo una prassi originata negli anni Settanta negli Stati Uniti – si assiste ad una crescente tendenza alla positivizzazione delle regole operative che governano l’attività dei medici e dei sanitari in generale: all’elaborazione, insomma, delle c.d. linee-guida.
Di recente, la Cassazione ci ha offerto una sintetica ed efficace definizione di linee-guida, ricalcata sulla definizione già fornita dall’Institute of Medicine statunitense: si tratta di “raccomandazioni di comportamento clinico, elaborate mediante un processo di revisione sistematica della letteratura e delle opinioni scientifiche, al fine di aiutare medici e pazienti a decidere le modalità assistenziali più appropriate in specifiche situazioni cliniche” (Cass. pen. Sez. IV sent. 11 maggio 2016 n. 23283).

Sempre secondo la Cassazione, “le linee-guida costituiscono sapere scientifico e tecnologico codificato, metabolizzato, reso disponibile in forma condensata, in modo che possa costituire un’utile guida per orientare agevolmente, in modo efficiente ed appropriato, le decisioni terapeutiche. [Attraverso di esse] si tenta di oggettivare, uniformare le valutazioni e le determinazioni; e di sottrarle all’incontrollato soggettivismo del terapeuta” (Cassazione penale, sez. IV, sent. 29/01/2013, n. 16237).
(domani la seconda parte dell’articolo)

Non pare che la legge n. 24/17 eviti ma che addirittura acuisca i rischi della medicina difensiva e che, piuttosto della ricerca della verità, la preoccupazione sia quella di creare una categoria di esperti, che siano formalmente tali, in quanto muniti della necessaria “etichetta”, senza che possa attingersi nel novero di chi ha conoscenze approfondite o persino titoli superiori, con il rischio concreto di gettare al macero esperienze e professionalità consolidate

28 APR – Ebbene, se quella raccontata nella puntata di ieri è la complessa ratio legis, dalla lettura di alcuni articoli nascono inevitabili perplessità, che non lasciano presagire l’agevole raggiungimento degli obiettivi delineati. L’ art. 6 regolamenta una nuova disciplina della responsabilità penale del medico, mediante l’introduzione del nuovo art. 590-sexies nel codice penale, che supera la tanto contestata distinzione tra colpa grave e colpa lieve contenuta nella legge Balduzzi, introducendo, piuttosto, una nuova causa di non punibilità per l’esercente la professione sanitaria che si uniforma integralmente alle raccomandazioni previste dalle linee guida ovvero, in mancanza di queste, alle buone pratiche clinico-assistenziali, «sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».

Giova riportare integralmente il testo del nuovo art. 590 sexies c.p. (“Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario”):

“Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma”.

“Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.

E’ ragionevole prevedere, in considerazione del tenore letterale della nuova disposizione, che i primi commentatori non mancheranno di individuare i punti critici di un testo non cristallino: a partire dalla problematica delimitazione dell’ipotesi disciplinata, che presuppone un evento causato per imperizia da parte del sanitario che abbia “rispettato” raccomandazioni previste da linee guida che “risultino adeguate al caso concreto”.

Si assiste ad una sorta di contradictio in terminis laddove, pur attribuendo l’evento ad imperizia, si esclude la punibilità se vi è stato rispetto delle linee guida.

E dunque il rispetto scrupoloso delle linee guida non esclude ex se ed in radice l’imperizia.

Esso esclude semmai la responsabilità penale, ma non esclude quella civile, e dunque il contenzioso in relazione ai procedimenti di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria.

A questo proposito, semmai più incisiva è la previsione che il previo accertamento tecnico preventivo a fini conciliativi costituisce condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, in alternativa al procedimento di mediazione.

In altre parole, per munire di procedibilità la sua domanda civilistica, l’attore potrà quindi scegliere tra ATP e mediazione.

Ma se ciò appare positivo, con formulazione che meritava maggiore precisione, l’ art. 9 comma 5 ultima parte prevede che per i tre anni successivi al passaggio in giudicato della decisione di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato l’esercente la professione sanitaria, nell’ambito delle strutture sanitarie o sociosanitarie pubbliche, non può essere preposto ad incarichi professionali superiori rispetto a quelli ricoperti e che il giudicato costituisca oggetto di specifica valutazione da parte dei commissari nei pubblici concorsi per incarichi superiori.

Trattasi di uno “spauracchio” formidabile, rappresentato dalla spada di Damocle di un “blocco” triennale di ogni possibilità od ambizione di carriera.
Il legislatore parla di “passaggio in giudicato”, il che farebbe supporre che si tratti di epilogo definitivo di un processo.

Ma la norma non parla di sentenza, bensì genericamente di “decisione di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato”, lasciando aperti pericolosi spiragli applicativi nel caso in cui il risarcimento sia stabilito in sede extragiudiziaria; od anche quando esso scaturisca da procedimenti giudiziari cui il sanitario non abbia preso parte, a seguito ad esempio di azione diretta del soggetto danneggiato nei confronti dell’ impresa di assicurazione (art. 12). Né si distingue, a fronte di una sanzione amministrativa inibitoria di progressi di carriera per una durata temporale fissa triennale, tra fattispecie che conducano a risarcimenti elevati da quelle che diano luogo a pagamenti irrisori o simbolici.

Tornando alle linee guida, di esse sono stati da tempo rimarcati pregi e difetti, condensando i quali non può certo dirsi che contribuiscano ad evitare medicina difensiva o a diminuire il contenzioso.

Di esse è noto come comportino, indubbiamente, una serie di vantaggi:
– oggettivizzano il sapere medico e, quindi, riducono il margine di errore derivante dal ragionamento veloce ed intuitivo che il medico deve effettuare in situazioni di emergenza;

– risolvono il problema dell’accesso “al” e dell’eccesso “del” sapere scientifico, permettendo al medico un più semplice e razionale aggiornamento;

– tendono ad una uniformazione delle prassi mediche riducendo eventuali disuguaglianze nella distribuzione di servizi e prestazioni;

– conducono il rapporto medico-paziente da una visione paternalistica, in cui il medico è depositario di un sapere irraggiungibile ed il paziente soggetto a questo, ad un rapporto più trasparente, che favorisce la c.d. “alleanza terapeutica”.

Ma ancora più lungo è, tuttavia, anche l’elenco degli svantaggi che possono ritrovarsi connessi alle linee-guida:
– trattandosi di regole standardizzate, basate su studi scientifici statistici, non possono tener conto della specificità dei singoli casi concreti;

– non possono coprire ogni ambito e ogni settore: come efficacemente rilevato da Marinucci, “lo spazio coperto dalle linee-guida e dai protocolli non può esaurire l’immensa varietà delle situazioni di pericolo che il sanitario deve individuare con la dovuta diligenza e perizia” ( G. Marinucci: “la responsabilità colposa: teoria e prassi” in Riv. It. dir. proc. pen., 2012, pag. 4 );

– rischiano di formalizzare in maniera eccessiva l’attività medica, addirittura favorendo manifestazioni di medicina difensiva: “cullando l’idea dell’impunità, il medico è indotto ad attenervisi sempre e comunque, anche quando il caso concreto è peculiare e impone un diverso trattamento terapeutico rispetto a quello in esse previsto”( P. Piras: “ La colpa medica: non solo linee-guida” in Diritto Penale Contemporaneo, 27 aprile 2011 );

– spesso le indicazioni in esse contenute sono difficilmente realizzabili nelle diverse realtà per competenza, tecnologie disponibili e assessment assistenziale;

– talora esse perseguono lo scopo di razionalizzare e di limitare la spesa sanitaria, e non, primariamente, di tutelare la salute del paziente;

– infine, non esiste alcun repertorio “ufficiale” delle linee-guida, né esiste un sistema di accreditamento delle stesse: le linee-guida vengono, di fatto, elaborate, peraltro in numero sempre crescente, da una pluralità di soggetti, portatori di interessi talora tra loro confliggenti (dal Ministero della salute all’Istituto Superiore della Sanità; da organismi regionali ad associazioni di professionisti; da aziende ospedaliere a centri di ricerca, dalle compagnie assicuratrici alle – almeno negli Stati Uniti – case farmaceutiche).

In definitiva, giova ribadirlo, non esiste alcun repertorio ‘ufficiale’ delle linee-guida, né esiste un sistema di accreditamento delle stesse: pertanto, le linee-guida possono fortemente diversificarsi quanto a metodologia, scopo e contenuti; quanto a origine (centralizzata o locale, pubblica o privata) e affidabilità dei redattori; quanto a grado di aggiornamento; quanto a livello di precisione e ‘perentorietà’ delle raccomandazioni in esse contenute.

Alcune incertezze scaturiscono anche dalla lettura dell’ art. 16, nella parte in cui prevede che “i verbali e gli atti conseguenti all’ attività di gestione del rischio clinico non possono essere acquisiti o utilizzati nell’ ambito di procedimenti giudiziari”, posto che lo scopo del legislatore sarebbe stato meglio perseguito prevedendo un’inutilizzabilità assoluta, e non relativa, estesa pertanto anche alle procedure extragiudiziarie ( senza contare che il giudice che si ritrovi nel fascicolo verbali di atti redatti in fase extragiudiziaria, pur consapevole della loro inutilizzabilità, potrebbe esserne in qualche modo influenzato).

Decise perplessità si ricavano anche dalla lettura dell’ art. 15 sulla scelta del consulente, nella parte in cui, allo scopo di garantire un elevato livello di competenza tecnica, si è previsto che l’incarico di C.t.u. in materia di responsabilità medica vada affidato ad un collegio composto da un medico “specializzato” in medicina legale e da uno o più “specialisti” nella disciplina che siano iscritti negli albi del Tribunale, abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento e non si trovino in posizione di conflitto di interessi nel procedimento stesso o in altri connessi.
A stretto rigore il termine “specializzato” non è sinonimo di “specialista”.

Lo specialista è colui che ha conseguito il relativo diploma in medicina legale od altro, mentre lo specializzato è colui che è tale per esperienza, per pratica, per competenza.

O forse il legislatore è incorso nell’ ennesima imprecisione e nel riferirsi allo specializzato voleva forse dire specialista? In tal caso, dovremmo chiederci che sorte avranno quelli diplomati anni or sono, atteso che il nome è diverso ( medicina legale e delle assicurazioni prima, medicina legale ora ), differente è la durata (3 anni prima, 5 poi, 4 oggi), obbligatoria e remunerata è oggi la frequenza, diversi sono i programmi di studio.

E inoltre, come vanno considerati i dottori di ricerca in medicina legale, con orientamento alla responsabilità professionale medica, che non sono specialisti, ma sono altamente specializzati in quel settore della medicina legale.

Posto che esistono dottori di ricerca anche in tutte le altre branche della medicina, quale potrebbe essere una plausibile ragione per la quale il giudice dovrebbe privarsi di tali ausiliari?

Anzi, nella gerarchia dei titoli di studio, essi sono posizionati su di un gradino superiore, addirittura apicale, atteso che il dottorato di ricerca è il più alto grado di istruzione previsto nell’ ordinamento accademico italiano.

E poi, un luminare di nazionalità diversa da quella italiana, di cui il giudice intenda avvalersi, non potrebbe forse essere nominato sol perché non specialista in medicina legale nell’ ordinamento accademico italiano?

Ma la regola nell’ individuazione degli ausiliari non è e non può essere vincolata ad un mero dato formale, dovendo essere piuttosto improntata a trasparenza, competenza e turnazione.

Innegabile che le consulenze in ambito di responsabilità medica, proprio per la complessità che le caratterizza, richiedono una profonda competenza sia nell’ambito della relativa dottrina giuridica che nella specifica area medica specialistica medico-legale.

Ma restringere il novero dei professionisti nominabili non gioca certo all’ accertamento della verità dei fatti, obiettivo precipuo, almeno tendenziale, del processo.

Non a caso, l’ art. 67 disp. att. c.p.p., peraltro richiamato dall’ art. 15, non parla di specialisti o specializzati ma di “esperti in medicina legale” e consente al giudice di nominare come perito anche un esperto non iscritto negli appositi albi, con l’ unico limite di indicare specificatamente in tal caso le ragioni della scelta.

La norma da ultimo citata, invero utile ed opportuna, non risulta affatto abrogata, neppure implicitamente.

In altre parole, il codice di procedura penale stabilisce che il perito sia scelto tra gli iscritti in appositi albi o “tra persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina”, prevedendo inoltre il possibile conferimento dell’incarico a più persone “quando le indagini e le valutazioni siano di notevole complessità ovvero richiedano distinte conoscenze in differenti discipline” (art. 221 cpp). Analogamente il codice di procedura civile all’art. 61 prevede: “…il giudice può farsi assistere, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o più consulenti di particolare competenza tecnica”. Diversa è la situazione del consulente del PM, la cui scelta ricade esclusivamente sulla fiducia in lui riposta dall’inquirente, non essendo previsti nello specifico appositi albi professionali.

Dunque, l’ importante è la notevole aspettativa di qualità nella scelta dei consulenti che potendo “far sentenza” con i loro elaborati devono (o si aspetta che possano essere) altamente competenti nella materia medica oggetto d’esame ovvero dotati di alta qualificazione ed esperienza professionale in medicina legale.

Ciò che conta però non è e non può essere il titolo o l’ etichetta, ma la conoscenza del prescelto, così da evitare che la consulenza sia carente sotto il profilo medico legale, in modo che il professionista sappia unire le due discipline (giuridica e medica) e sia in grado di individuare il nesso di causalità, il soggetto responsabile e la gravità della colpa.

Piuttosto, nella pratica quotidiana emergono problematiche più diffuse quali, a titolo esemplificativo, le incompatibilità (un problema rilevante, frequente e fonte di ambiguità o di “scorrettezza” è quello della incompatibilità, per motivi professionali, di amicizia, ecc., che non vengono quasi mai controllate dal giudice come sarebbe necessario), la standardizzazione dei quesiti e le consulenze erronee (un dato preoccupante che sembra riguardare soprattutto i grandi uffici giudiziari è la cosiddetta standardizzazione dei quesiti, vale a dire l’utilizzazione di moduli precompilati. La standardizzazione dei quesiti fa ritenere che i giudici non abbiano avuto modo di studiare il fascicolo e quindi di comprendere appieno i nodi della questione. Diretta conseguenza di ciò è la necessità di ulteriori valutazioni e di chiarimenti, strumento a disposizione della parte per contestare punti della consulenza che si ritengono non esaustivi o erronei), il ritardo nel deposito delle consulenze (un problema grave è costituito dai frequenti ritardi nel deposito delle consulenze; occorre sanzionare i ritardi, con la revoca dell’incarico, la riduzione dell’onorario, la cancellazione dall’albo, ecc).

Il risultato di queste brevi riflessioni è che il legislatore ha profuso un innegabile sforzo per ovviare alle criticità emerse nella pratica giudiziaria in materia di responsabilità professionale medica.

Ma poteva e doveva fare di più, in quanto, in estrema sintesi, non pare che la l. n. 24/17 eviti ma che addirittura acuisca i rischi della cd. medicina difensiva e che, piuttosto della ricerca della verità, la preoccupazione sia quella di creare una categoria di esperti, che siano formalmente tali, in quanto muniti della necessaria “etichetta”, senza che possa attingersi nel novero di chi ha conoscenze approfondite o persino titoli superiori, con il rischio concreto di gettare al macero esperienze e professionalità consolidate.

Non resta che attendere, per un giudizio definitivo, più attendibile e maggiormente ponderato, le disposizioni di attuazione e, come sempre, l’ applicazione pratica.

Raffaele Agostini 
Magistrato 

Ultimo aggiornamento

10 Novembre 2018, 10:22

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