La sentenza “Venturi”. Lettera aperta del presidente dell’Omceo di Bologna: “La nostra iniziativa era e resta interamente deontologica” (da quotidianosanita.it del 27 dicembre 2019)

Data:
28 Dicembre 2019

Abbiamo subito un processo alle intenzioni sul ritenuto conflitto di attribuzioni da parte della Corte, ma non per questo la battaglia sulla deontologia va considerata persa. Il nostro Ordine  ha ritenuto di doversi battere per un bene collettivo, per un bene fondamentale che è la regola morale quale valore guida comportamentale per potersi ascrivere all’appartenenza ordinistica e per esercitare la nostra difficile professione da pari e tra pari. Senza questa regola morale la nostra professione è destinata a brutalizzarsi e a perdere la sua anima ippocratica

27 DIC – Riceviamo e pubblichiamo questa lettera aperta indirizzata ai Presidenti Omceo italiani dal presidente dell’Ordine dei medici di Bologna Giancarlo Pizza.

Egregi Colleghi,
con questa lettera aperta, dopo la sentenza della Corte Costituzionale sul “caso Emilia Romagna e del suo assessore dott. Venturi”, vorrei pubblicamente, a testa alta, con orgoglio, con convinzione, con lo stesso spirito di servizio di sempre, fare professione di fede verso la mia, la nostra professione e le regole morali che la ispirano, la definiscono, la guidano e la proteggono.

Una “professione di fede” non è la stessa cosa di quel giuramento che noi medici facciamo prima di iniziare a esercitare la professione: con essa si dichiara ciò in cui si crede, con il giuramento ci si impegna rispetto, a ciò in cui si crede, ad essere coerenti.

Quanto è accaduto non si può comprendere senza capire ciò in cui tutti noi medici, crediamo, abbiamo creduto e continueremo a credere e senza capire ciò in cui, per tante ragioni, il mondo sembra non credere più mettendoci in crisi.

• nel principio del malato inteso – come è stato scritto con grande autorevolezza – quale “archè”: un principio generativo da cui partire per decidere tutto quello che riguarda la sua salute e la sua cura, quindi prestazioni, trattamenti, metodi, servizi e organizzazioni, formazione, informazione;

• nel principio di beneficialità cioè nella promozione di ciò che è bene per il malato e per la collettività;

• nel principio di non maleficenza cioè nell’impegno a non causare un danno o provocare del male e a impedire che le cose che si fanno possano nuocere al malato per come sono fatte;

• nella medicina scientifica e nelle sue regole fino a quando esse non saranno ridefinite dalla comunità scientifica;

• nel ruolo insostituibile ed irretrattabile della deontologia, cioè in quella morale che lega i nostri doveri professionali e i nostri comportamenti attesi ai diritti delle persone e al rispetto delle regole della scienza, facendo di tali doveri e di tali comportamenti la prima vera garanzia per il cittadino;

• nel principio di autonomia nella sua duplice accezione, professionale per il medico e sociale quindi auto-determinativa per il cittadino;

• nel rispetto delle organizzazioni medico-sanitarie, decise per legge, attraverso  le quali si distinguono preliminarmente ruoli, compiti, funzioni, percorsi formativi, responsabilità;

• nella professione medica nella sua irriducibile complessità e quindi nel suo essere professione che governa le complessità;

• nel ruolo insostituibile degli Ordini, nella loro autonomia ed indipendenza anche nella individuazione e produzione delle regole deontologiche così come da sempre riconosciuta e garantita per legge, e nella loro funzione di garanti tanto dei diritti dei cittadini che di quelli delle professioni, delle loro prerogative e delle loro facoltà;

• nel valore supremo della solidarietà intesa sia come convergenza di valori, di interessi, di idee che come obbligazione morale nei confronti dei più deboli.

Il “caso Venturi” non nasce come un fulmine a ciel sereno, o come qualcuno ha detto da risentimenti personali, pregiudizi politici, o peggio da eccessi di protagonismo, ma da una lunga storia, durata anni di rapporti difficili, tra l’Ordine di Bologna e la regione Emilia Romagna. Origina da certe omissioni della politica nazionale, prende forma da un periodo di direzione FNOMCeO ambiguo confuso e incerto – ora per fortuna alle spalle – si sviluppa in un clima, nella sanità, di crescita esponenziale della conflittualità tra professioni, in ultima analisi si sostanzia in quella che nelle 100 tesi il prof. Cavicchi ha definito con grande lucidità “questione medica”.

Se non ci fosse una “questione medica” il caso Venturi non sarebbe mai nato. Se, fino ad ora, nella storia della professione e degli Ordini medici, non si è avuto mai un “caso Venturi” è perché prima d’ora la nostra professione non è mai stata al centro di un così insistente tentativo di disgregazione, di espropriazione, di delegittimazione che passa anche ed innanzi tutto dalla delegittimazione della basilare importanza degli stessi principi deontologici fondanti dell’essere medico e dell’agire da medico, quei principi riconosciuti e posti non infrequentemente dallo stesso Legislatore come fattore integrativo, e non subordinato, della normativa statale.

Se il “caso Venturi” è qualcosa di inedito e di eccezionale lo è solo perché oggi inedita e eccezionale è la condizione della nostra professione.

Sono rimasto molto colpito dalla quasi coincidenza di due pubblicazioni, molto diverse tra loro, anzi, direi del tutto difformi: da un lato quella della Corte Costituzionale che ha dato torto allo Stato e per esso al nostro Ordine per aver ritenuto deontologicamente inappropriate le famose “competenze avanzate” e, dall’altro,  quella della regione Veneto che, con una delibera, ha dato la stura proprio a quelle medesime “competenze avanzate” oggetto di contrasto disciplinare nei confronti dei medici iscritti all’Ordine Bolognese.

Di solito una coincidenza è un concorso di circostanze fortuite ma in questo caso di fortuito potrebbe apparire essercene poco. Si osserva l’avanzamento di un processo deregolatorio senza precedenti la cui vera controparte alla fine sembra essere proprio la nostra professione – e la sua deontologia improntata a quell’archè – vista come un ostacolo, un impedimento, un intralcio all’affermarsi di una “nuova geografia di professioni” al servizio di una governance regionale sempre più aggressiva.

Questo processo come è stato puntualmente scritto, vede un’alleanza inedita tra una discutibile forma di corporativismo con un contro riformismo ora rappresentato dal regionalismo differenziato, in un quadro generale dove il sistema viaggia molto velocemente verso la sua crescente privatizzazione.

Ma quel che è peggio è che quello in cui si è sempre creduto tutti, oggi sembra solo un esercizio retorico, un rottame del passato.

Il malato, ad esempio, oggi come valore pare vivere solo nelle formule retoriche della politica, parrebbe tutto meno che un archè; cioè se prima era un punto di partenza come statuito dalla riforma del 1978, oggi egli non appare più come la condizione necessaria e sufficiente per contemperare gli interessi, per mediare tra i problemi, per moderare le politiche.

Sui bisogni e sulle garanzie da dare al malato oggi prevalgono gli interessi degli operatori, i problemi della gestione, quelli della sostenibilità del sistema, interessi certamente indisponibili a farsi verificare sul principio di beneficialità o su quello della non maleficenza ma disponibilissimi a violare i valori sui quali all’inizio ho fatto la mia professione di fede, quindi a violare regole, norme, organizzazioni, rapporti, persino diritti.

Siamo ormai alla destrutturazione della professione: tutto pare spingere al ridimensionamento delle strutture concettuali che fino ad ora hanno definito le nostre più basilari competenze. Oggi ci contestano il consenso informato, perfino la nostra presenza professionale; oggi pare si sia ormai al limite dell’improvvisazione.

Tornando al “caso Venturi” e alla sentenza della Corte andiamo al cuore della questione, cioè ai rapporti tra gestione e deontologia.

Il punto politico è capire se è giusto, etico, opportuno, subordinare i valori della deontologia ai problemi della gestione.

Secondo il nostro Ordine, secondo la mia professione di fede secondo la mia deontologia, non è giusto, secondo la Corte si. Lasciamo perdere le motivazioni ufficiali della Corte e le interpretazioni strumentali che se ne possono dare, ma quando ci si accusa di interferire come Ordine con una istituzione come la regione, in realtà, è come se si dicesse che è la deontologia alla quale noi ci siamo riferiti, perché era nostro dovere farlo, che non deve interferire con la gestione.

Quando abbiamo preso atto che la Corte alla fine ha deciso estromettere dal “caso Venturi” la vera autorità garante nel mondo dell’ordinistica che è la CCEPS, abbiamo capito che, in realtà, non si voleva in alcun modo accreditare la deontologia come contro valore della gestione e dell’amministrazione regionale.

Questo è il cuore del problema. E’ inutile girarci intorno. Ma è del tutto evidente che i problemi restano e che il travaglio dentro la nostra professione è destinato a crescere ancora di più.

L’Ordine ha sempre agito in questo, come in altri precedenti casi in materia, nei confronti di tutti gli iscritti, esercitando funzioni e competenze istituzionali ed applicando con la più grande correttezza le norme deontologiche e legislative disponibili: una azione che il prof Cavicchi ha provocatoriamente definito, in tempi non sospetti, di “disobbedienza deontologica”.

Per quanto la Corte ci abbia rimproverato di interferire addebitandoci un conflitto di attribuzione in nessuna parte della sua sentenza ci ha contestati la liceità della nostra iniziativa che, si ribadisce, era e resta interamente deontologica e per questa ragione  interamente riferita ad un nostro medico iscritto e non solo a lui (ricordo i provvedimenti  disciplinari adottati per altri medici) e quindi  in nessun modo riferita ad un assessore sul quale ovviamente  come Ordine non avevamo e non abbiamo potere di intervento.

Oggi, come professione, siamo davvero in una situazione drammatica: abbiamo soldi per fare i contratti, possiamo assumere più medici, abbiamo anche più borse di studio, ma il tutto con un futuro professionale molto incerto e pieno di incognite. Per fortuna la FNOMCeO ha messo in campo l’iniziativa straordinaria degli Stati Generali, altrimenti non sapremmo dove approdare.

Per quello che mi riguarda, reputo si debba andare avanti e non credo sia saggio arretrare anche solo di un millimetro sul terreno della deontologia. Ho già letto da parte di alcuni Colleghi, gli stessi che fin dall’inizio hanno pubblicamente avversato la nostra posizione e negandoci ogni minima forma di solidarietà, la loro voglia incontenibile di mettere limiti  all’esercizio del potere disciplinare da parte degli Ordini, esattamente come ha fatto la FNOPI che  pubblicamente non fa mistero di vedere il regionalismo differenziato in funzione del task-shifting e della contendibilità dei ruoli.

Mettere dei limiti alla deontologia per favorire l’autonomia della gestione sarebbe un grande errore. Oggi i principali problemi all’autonomia medica derivano dai condizionamenti di una gestione che dire tirannica è poco. Al contrario la deontologia, come ci insegna l’esperienza dell’Ordine di Trento, va radicalmente ripensata ma al solo fine di renderla più forte. Nella situazione in cui siamo, con la crisi del malato come ideale regolativo, se crolla il principio fondante della deontologia, per la professione è la fine della possibilità di rappresentare la vera garanzia al corretto agire medico che sta alla base di quel diritto alla salute previsto dalla Costituzione per il cittadino.

Io mi dichiaro fiero della battaglia fatta dalla Commissione Medica dell’Ordine di Bologna in tutti i casi affrontati e giudicati in tema di c.d. competenze avanzate, già tutte ritenute antideontologiche dalla stessa C.C.E.P.S. – Giudice del deontologico disciplinare –  e orgoglioso di aver cercato di servire – in uno con i colleghi commissari, anche dissenzienti, nella ricchezza del contraddittorio interno –  la nostra professione, convinto che servendo la nostra professione si è cercato di servire il malato contribuendo a rinsaldare una certa idea di civiltà.

L’Ordine di Bologna ha subito un processo alle intenzioni sul ritenuto conflitto di attribuzioni da parte della Corte, ma non per questo la battaglia sulla deontologia va considerata persa. Il nostro Ordine con onore e senso di responsabilità ha ritenuto di doversi battere per un bene collettivo, per un bene fondamentale che è la regola morale quale valore guida comportamentale per potersi ascrivere all’appartenenza ordinistica per esercitare la nostra difficile professione da pari e tra pari nel rispetto di quei valori ad oggi non ancora soppressi seppur in pericolo di soppressione. Senza questa regola morale la nostra professione è destinata a brutalizzarsi e a perdere la sua anima ippocratica.

Prima di chiudere questa lettera aperta desidero ringraziare chi ci ha sostenuti, capiti, interpretati, a partire dalla FNOMCeO e quindi a partire dal presidente Anelli che di fastidi a causa nostra, lo ammetto, deve averne avuto più di uno, ma che con grande equilibrio non ha mai tradito la nostra vocazione deontologica assicurandoci comprensione, sostegno e solidarietà.

Nello stesso tempo non posso non ringraziare Cesare Fassari per la continua e pronta disponibilità ad accogliere i nostri contributi di idee sul Suo prestigioso giornale.

Infine un ringraziamento particolare a Ivan Cavicchi che per primo ha compreso il senso delle nostre posizioni e le ha difese con grande coerenza e con argomentazioni che ritengo ineccepibili.

Giancarlo Pizza
Presidente dell’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri di Bologna 

Ultimo aggiornamento

28 Dicembre 2019, 08:10

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