Cassazione. L’urgenza esclude l’obbligo di consenso informato (da quotidianosanita.it del 18 luglio 2018)

Data:
19 Luglio 2018

Secondo la Cassazione salvare la vita di un paziente prevale su tutto il resto, specie in caso di emergenza e se il paziente (in questo caso con patologia psichiatrica) non è in grado di esprimere il consenso. Il medico ha l’obbligo di procedere alle cure necessarie, predisponendo i presidi e i trattamenti per prevenire conseguenze pregiudizievoli o, addirittura, letali. 

LA SENTENZA.

18 LUG – Non sempre è d’obbligo ottenere il consenso informato prima di procedere a un intervento terapeutico di urgenza.

Secondo la Cassazione infatti (sentenza 31628/2018 della IV sezione penale) di fronte a una situazione di pericolo per l’integrità fisica del paziente, il medico ha l’obbligo di procedere alle cure necessarie, predisponendo i presidi e i trattamenti per prevenire conseguenze pregiudizievoli o, addirittura, letali.

Il fatto
A due medici in servizio nel giorno del ricovero della paziente poi deceduta, era stato imputato il reato previsto agli artt. 113 (cooperazione nel delitto colposo) e 589 (omicidio colposo) del codice penale perché uno in qualità di medico del Pronto Soccorso e l’altro quale medico dello stesso ospedale, avevano provocato la morte della paziente per grave insufficienza respiratoria conseguente a grave infezione tetanica non trattata durante il primo ricovero. Gli imputati sono stati condannati (concesse le attenuanti generiche a entrambi) a sei mesi di reclusione uno e a quattro mesi l’altro dal Tribunale di Avellino per non aver eseguito gli atti sanitari necessari a intervenire nelle diverse fasi del ricovero e della dimissione della paziente, giunta in ospedale per diverse ferite da taglio all’addome e ai polsi auto inferte.

Un medico che aveva avuto in cura la paziente al Pronto Soccorso, praticandole le medicazioni e le suture necessarie, aveva omesso di praticare la profilassi antitetanica e antibiotica necessaria per la natura delle ferite, profonde e sporche di terra.

L’altro medico, che non aveva preso parte agli interventi terapeutici perché relativi ad altra branca ospedaliera e che si era attivato per ottenere un consulto psichiatrico per la ricoverata la cui condizione di depressa cronica faceva temere ulteriori atti di autolesionismo, è stato accusato di avere firmato la dimissione della paziente anche dopo aver constatato la mancata esecuzione di profilassi antitetanica.

La sentenza
Il Giudice di merito aveva deciso per la condanna (riformata in appello per prescrizione del reato), ritenendo come entrambi i medici avrebbero dovuto praticare la terapia antibiotica e antitetanica, doveroso secondo la leges artis e i protocolli sanitari e due circolari della Regione Campania.

La difesa ha controbattuto che i medici in questo modo avrebbero effettuato un trattamento sanitario, in assenza di un consenso da parte della paziente (prescritto da norme di carattere nazionale), solo basandosi su circolari in materia di natura sotto ordinata.

Ma secondo la Cassazione salvare la vita di una paziente prevale su tutto il resto, specie in caso di emergenza e se il paziente (in questo caso con patologia psichiatrica) non è in grado di esprimere il consenso.

La Cassazione ricorda nella sentenza che le sezioni unite avevano già chiarito come “non integra il reato di lesioni personali, né quello di violenza privata la condotta del medico che sottoponga il paziente a un trattamento terapeutico in relazione al quale non sia stato prestato il consenso informato, nel caso in cui questo, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, essendo da esso derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute del paziente, in riferimento anche alle eventuali alternative ipotizzabili e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte dello stesso”.
Si tratta quindi di una chiara ipotesi in cui il consenso non è indispensabile.

I medici, però, erano stati condotti in giudizio per altre ragioni: per non aver sottoposto la donna alla necessaria terapia antitetanica. Prescritto il reato, la condanna al risarcimento delle parti civili è stata quindi confermata per queste ragioni.

Secondo la sentenza “la necessità del consenso informato, così come prospettata dal ricorrente, è del tutto inconferente al caso di specie nel quale il rimprovero mosso ad entrambi i sanitari ciascuno rispetto agli incombenti svolti e alle rispettive fasi del ricovero e della dimissione – è di non aver praticato alla persona offesa la necessaria terapia antitetanica, comportamento doveroso che, se attuato, avrebbe evitato l’insorgenza dell’infezione per la quale la donna successivamente moriva. Esattamente la Corte di appello di Napoli afferma che la profilassi antitetanica ed antibiotica risultava necessaria proprio in considerazione della natura delle ferite, all’evidenza immediata profonde e sporche di terra, così come peraltro aveva rilevato l’ortopedico il quale, intervenuto su richiesta per accertare eventuali lesioni tendinee, aveva consigliato di eseguire una profilassi antitetanica”.

Quindi, prosegue la sentenza nelle sue conclusioni, “l’anzidetta profilassi, che avrebbe dovuto essere praticata all’atto del ricovero dal sanitario preposto – a nulla rilevando la circostanza sull’autenticità o meno della prescrizione di un trattamento antitetanico nel referto – una volta accertata la condizione di pessima igiene delle ferite, avrebbe con elevata probabilità logica evitato l’infezione e il conseguente decesso. Entrambi i medici, invece, omisero di valutare la possibilità dell’infezione tetanica la quale, tuttavia, data la condizione delle ferite, poteva dirsi assolutamente prevedibile secondo scienza ed esperienza”.

Per la Cassazione poi “la valutazione e la motivazione della Corte distrettuale sono corrette, congrue e condivisibili. Le dimissioni di un paziente non hanno affatto un carattere meramente formale perché sul medico che vi provvede grava l’obbligo di esaminare la cartella clinica del paziente. Da detta lettura, il medico ricorrente avrebbe appreso del tipo di lesioni riportate dalla paziente, delle terapie praticatele e dell’omessa somministrazione dell’apposita terapia per prevenire l’insorgenza dell’infezione tetanica. Né la circostanza che la paziente fosse stata presa in carico dall’altro medico lo esimeva dall’esprimere osservazioni e critiche sui trattamenti praticati o non praticati”.

“Si tratta  – conclude la sentenza – di comportamento che il medico preposto a dimettere il paziente deve tenere per impedire il verificarsi dell’evento dannoso. La responsabilità per colpa del medico ricorrente scaturisce proprio dal fatto che egli disponeva di tutte le informazioni e dei dati clinici sulle condizioni del paziente, ossia dei dati che avrebbero consentito di evidenziare l’omessa somministrazione della terapia necessaria e ciò non di meno non è intervenuto per porre rimedio o per evidenziare la necessità della profilassi in questione”.

Ultimo aggiornamento

19 Luglio 2018, 11:08

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