Risk, Cassazione: «L’infermiere non è mero esecutore materiale» (da A.F.O.R.P. del 17 maggio 2016)

Data:
18 Maggio 2016

L’infermiere professionale non può considerarsi «mero esecutore materiale delle prescrizioni impartite dal personale medico», possedendo una professionalità e competenza che «gli consentono, se del caso, di chiedere, quantomeno, conferma della esattezza di una determinata procedura terapeutica, tanto più se essa è di una erroneità e pericolosità talmente clamorose ed evidenti da essere immediatamente percepibile, come tale, anche dal personale paramedico».

In ordine alla «problematica relativa alla possibilità, in capo all’esecutore, di disattendere o sindacare prescrizioni terapeutiche impartitegli dal personale medico gerarchicamente superiore», ovvero «se l’infermiere professionale è “obbligato” a eseguire una prestazione medica errata», a mente del decreto del Presidente della Repubblica 225/1974, articolo 2 (recante il mansionario generale dell’infermiere), tra le attribuzioni dell’infermiere professionale rientra «la somministrazione dei farmaci prescritti», là dove, poi, il decreto ministeriale 739/1994, articolo 1, comma 3, lettera d) (recante il regolamento sull’individuazione della figura e del relativo professionale dell’infermiere), stabilisce che l’infermiere «garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche».

Sicché, l’infermiere ha «una possibilità di delibazione» rispetto alla prescrizione medica «di per se stessa erronea o incompleta», con «l’onere di adeguarne l’esecuzione ai protocolli medici vigenti e che egli abbia la possibilità di conoscere».

Questo è un chiarimento, destinato a fare giurisprudenza, emesso dalla III sezione civile della Corte di cassazione, n. 7106/2016 del 12 aprile, che ha respinto i ricorsi dell’infermiere e del medico avverso la decisione della Corte d’appello di Massa che li aveva condannati, in solido, al risarcimento nei confronti degli eredi del paziente deceduto a causa di una fiala di potassio non diluita somministrata «in conformità alla prescrizione».

L’infermiera si difese sostenendo di avere, semplicemente, eseguito la prescrizione del medico, il quale, dopo l’iniezione, aveva poi corretto la relativa annotazione sulla cartella clinica subendo per questo fatto anche un procedimento penale.

Il giudice di primo grado le diede ragione in quanto la ritenne «mera esecutrice di una prescrizione ordinata “erroneamente… senza alcuna diluizione”, là dove la necessità della diluizione indicata con correzione sulla cartella clinica era avvenuta solo dopo la morte paziente».

 Decisione ribaltata dalla Corte d’appello di Massa che la ritenne parimenti responsabile “in solido” «per aver praticato una somministrazione di cloruro di potassio, non diluito in soluzione fisiologica, senza effettuare alcuna forma di controllo critico su quel che stava eseguendo». Secondo la tesi della Corte d’appello, fatta propria dai giudici di Piazza Cavour, non può graduarsi la responsabilità dell’operatore professionale «in funzione della sua minore o maggiore esperienza in concreto», dovendo, invece, presumersi che colui il quale «è abilitato ad operare in un settore professionale di qualsivoglia genere» sia «portatore delle relative conoscenze tecniche e onerato del possesso delle medesime, indipendentemente dalla risalenza o meno nel tempo della sua attività». La responsabilità dell’infermiere non libera il medico «sul quale grava, in ogni caso, l’onere di impartire una prescrizione terapeutica precisa e completa tanto più in presenza di farmaci con potenziali effetti letali».

Ultimo aggiornamento

18 Maggio 2016, 08:29

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