Medici, non bastano linee guida per escludere colpa. Ecco la sentenza (da DoctorNews33 del 5 ottobre 2018

Data:
5 Ottobre 2018

Un paziente cardiopatico candidato a trapianto muore nel 2002 in un grande ospedale lombardo mentre esegue un test da sforzo preoperatorio previsto dai protocolli. La famiglia chiede risarcimento a struttura, regione e ministero della Salute. Nel 2012, il Tribunale civile di Milano rigetta la domanda, spiegando che l’esecuzione del test da sforzo in pazienti da avviare a trapianto cardiaco è prevista dalle linee guida elaborate sulla base della migliore pratica clinica e del resto non si vede nesso causa-effetto tra l’operato del personale sanitario e l’evento morte. A maggio 2014 la Corte d’Appello di Milano respinge anche il ricorso, ma riconosce il nesso tra test da sforzo e morte del paziente, aggiungendo che tuttavia le linee guida prescrivono il test e non si può imputare alcuna colpa ai sanitari. 

La famiglia del defunto ricorre allora in Cassazione dove lamenta che nei gradi precedenti i giudici non hanno valutato le procedure seguite dai medici per determinare l’idoneità del paziente al protocollo preoperatorio. La Cassazione sezione III Civile emette sentenza 15749 il 20 marzo scorso, intervenendo in tempi in cui la legge Gelli salva dal contenzioso per colpa grave il sanitario che segue le linee guida. E sottolinea che, nello stabilire se la condotta dei sanitari sia stata esente da colpa, si deve avere riguardo della “peculiare e concreta situazione del paziente”. 

Richiamandosi a una precedente sentenza (11208/2017) e all’ordinanza 295/2013 della Corte Costituzionale, secondo cui «le linee guida in materia sanitaria contengono esclusivamente regole di perizia» (dunque se il sanitario le segue perché inesperto lo esimono da colpa grave, se le segue con “condotta negligente e/o imprudente” no), la Suprema Corte conferma che il rispetto di linee guida e buone pratiche costituisce solo elemento di valutazione e non di esclusione della colpa» e non esime il giudice dal valutare se le circostanze del caso concreto esigessero una condotta diversa da quella prescritta dai protocolli. Questo non cambia nulla per quanto riguarda la richiesta della famiglia del defunto: per la Cassazione, la Corte d’Appello ha correttamente considerato se alla luce degli esami eseguiti il paziente fosse o meno candidabile al test da sforzo, e linee guida alla mano lo era. La famiglia fa presente nel ricorso che non c’è traccia in cartella clinica dei controlli necessari per accertare se il paziente poteva sottoporsi al test ma la Corte replica che non vede puntualizzati gli esami che avrebbero potuto predire il drammatico epilogo. 

Terzo motivo del ricorso: prima di sottoporsi al test il defunto ha firmato dei consensi informati “aspecifici” che non accennavano ai rischi della prova fisica. E anche qui la Corte in astratto riconosce che la non corretta raccolta del consenso informato è fonte sia del danno denunciato (se informato della nocività del test il paziente avrebbe detto no), sia di un ulteriore danno, anche economico, dovuto al non aver conosciuto «con la necessaria e ragionevole precisione» le conseguenze probabili dell’intervento. Ma nei ricorsi non risultano dimostrati gli aspetti richiamati, in particolare la lesione dell’autodeterminazione del paziente. Ergo, ricorso rigettato.

Ultimo aggiornamento

5 Ottobre 2018, 07:33

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