Innanzitutto non andrebbero chiamate «cure compassionevoli», per «non confonderle con legittimi sentimenti di empatia nei confronti di malati gravi e incurabili». È questo il primo punto sottolineato dal Comitato nazionale per la bioetica (Cnb) della Presidenza del Consiglio nel parere sulla «Cura del caso singolo e trattamenti non validati (c.d. “uso compassionevole”)». L’alternativa proposta è “trattamenti non validati a uso personale e non ripetitivo”, con l’auspicio che una “consensus conference” internazionale possa promuoverne l’uso.

«L’accesso a tali trattamenti – si legge nel parere del Cnb – deve avere il carattere dell’eccezionalità, in assenza di terapie validate, in casi gravi di urgenza ed emergenza per un paziente in pericolo di vita, e non possono mai essere un’alternativa, esplicita o surrettizia, alla sperimentazione clinica».

Ma questo non basta. Tali trattamenti «Devono comunque avere una ragionevole e solida base scientifica: dati pubblicati su riviste internazionali di tipo peer-review, con evidenze scientifiche robuste, almeno su modelli animali e possibilmente risultati di sperimentazioni cliniche di fase I».

La prescrizione deve inoltre «essere a carico di un panel di esperti, designati da istituzioni sanitarie pubbliche, in condizioni di totale trasparenza: assenza di conflitti di interesse, pubblicazione sia della composizione dei prodotti che dei risultati del trattamento, spiegazione esauriente ai pazienti sulla potenziale pericolosità di trattamenti non validati, onere dei farmaci a carico dei produttori e monitoraggio effettuato da istituzioni sanitarie pubbliche».

Solo a queste condizioni, conclude il Cnb, i trattamenti “compassionevoli” si possono ritenere «eticamente leciti e rientrano nel diritto generale alla salute».